Che cos'è il diritto al cibo?
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Il diritto al cibo è stato riconosciuto fin dall'adozione della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani nel 1948. Ma che cosa implica? E come può essere attuato? Sono due tra le domande probabilmente destinate a emergere durante la discussione su un codice di condotta concernente il diritto al cibo nel corso del Vertice Mondiale sull'Alimentazione: cinque anni dopo, che si svolgerà nei giorni 10-13 giugno nella sede centrale della FAO a Roma.
Il Codice Internazionale di Condotta sul Diritto Umano a un'Alimentazione Adeguata fu proposto per la prima volta alla vigilia del Vertice Mondiale sull'Alimentazione del 1996. Esso è largamente appoggiato dalle organizzazioni non governative che difendono la causa degli affamati. Ora queste ONG chiedono agli Stati di avviare negoziati intergovernativi sul Codice di Condotta, che fornirebbe una direttiva sull'attuazione del diritto al cibo. Il Codice non creerebbe nuovi diritti od obblighi, che già esistono nel quadro del diritto internazionale, ma si concentrerebbe sui passi concreti che i singoli paesi possono compiere per far sì che le loro politiche e la loro legislazione rispettino, proteggano e attuino il diritto di tutti al cibo. Il diritto al cibo è inscritto nelle costituzioni di oltre 20 paesi, e circa 145 paesi hanno ratificato il Patto Internazionale sui Diritti Economici, Sociali e Culturali del 1966, che impone esplicitamente agli Stati firmatari di legiferare sul diritto a un'alimentazione adeguata. Ma il Codice è probabilmente destinato a imbattersi in resistenze a causa di questioni spinose come le seguenti:
Il cammino compiuto dopo la Magna Carta
La teoria dei diritti umani contempla due tipi di diritti: quelli la cui osservanza si realizza semplicemente non intervenendo, come il diritto al culto, e quelli la cui attuazione ha bisogno di risorse. Alcuni dubitano che in quest'ultimo caso si possa parlare di diritti. C'è dunque una netta distinzione tra un'interpretazione ristretta (il diritto a procurarsi il cibo mediante i propri sforzi senza essere intralciati) e un'interpretazione ampia (il diritto a ricevere il cibo quando non si è in grado di procurarselo). L'interpretazione ristretta non è nuova. La Magna Carta del 1215 afferma che nessuno sarà ‘multato’ in una misura che lo privi dei suoi mezzi di sussistenza. L'interpretazione ampia garantisce una nutrizione adeguata quando il lavoro o la terra non sono disponibili, e implica dunque l'impiego di risorse per nutrire gli esseri umani. Numerosi governi non accettano quest'interpretazione. Anzi alcuni hanno sostenuto che spendere tempo e denaro per promuovere il diritto al cibo significa sprecare risorse che sarebbe meglio destinare ai poveri. Ma considerare la sicurezza alimentare un diritto aiuta a concentrare l'attenzione sulle questioni cruciali della responsabilità e della non-discriminazione, le quali hanno anch'esse il loro fondamento nella legge. In conclusione, il diritto al cibo è interamente una faccenda di buon governo e di attenzione per i più poveri e i più emarginati. Jean Ziegler, il Relatore Speciale delle Nazioni Unite sul Diritto al Cibo, contesta l'intera distinzione tra le libertà astratte e quelle che richiedono di risorse. «Di fatto, anche l'attuazione dei diritti civili e politici implica risorse,» ha scritto. «Il costo della creazione e dell'addestramento delle forze di polizia e dell'apparato militare e giudiziario necessari per far rispettare la legislazione internazionale sui diritti umani non è irrilevante.» Anche alla stregua di un'interpretazione ristretta del diritto al cibo, i governi debbono provvedere a conservare un ambiente in cui gli uomini possano nutrirsi con le loro forze. «Gli individui hanno una responsabilità per quanto riguarda il loro cibo, e quindi non si deve imputare automaticamente la denutrizione allo Stato,» dice Margret Vidar, funzionario dell’ufficio legale della FAO. «Ma lo Stato può esser reso responsabile delle condizioni che la producono.» Per esempio — precisa — bisogna avere un salario adeguato o l'accesso alla terra per poter acquistare o coltivare il proprio cibo. Bisogna fare in modo che i mercati dei prodotti alimentari e l'offerta di sementi non siano distorti da pratiche monopolistiche scorrette. E aggiunge, «Lo Stato deve assicurare il fair play, o rischia di violare il diritto al cibo.» Ci vediamo in tribunale … Il Patto Internazionale sui Diritti Economici, Sociali e Culturali si spinge oltre, affermando che gli Stati debbono fare tutto il possibile per assicurare una nutrizione adeguata — e legiferare a questo fine. Un cittadino affamato non può tuttavia citare in giudizio il suo governo sulla base del Patto, ma soltanto sulla base delle leggi del suo paese. Se dunque un paese non ha mai introdotto leggi del genere, ha violato il Patto, ma il cittadino non ha modo di ottenere riparazione. Le Nazioni Unite vigilano sull'attuazione del Patto attraverso il loro Comitato sui Diritti Economici, Sociali e Culturali, che opera mediante l'Ufficio dell'Alto Commissario per i Diritti Umani. Nel 1999 il Comitato insisté sull'obbligo per gli Stati di introdurre leggi che proteggano il diritto al cibo. Può funzionare questo meccanismo? Jean Ziegler ha citato esempi in cui ha funzionato. Eccone qualcuno:
«È difficile per chi muore di fame andare in tribunale,» dice la signora Vidar. «Ma le ONG e altri organismi possono utilizzare la legge per proteggere i poveri. Facciamo dunque in modo che, sia o non sia adottato il Codice di Condotta, il Patto Internazionale sui Diritti economici, Sociali e Culturali, o un suo equivalente, venga inscritto nelle legislazioni nazionali. La legge può essere il ponte tra gli affamati e il cibo di cui hanno bisogno.»
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dal sito www.fao.org
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